L’ISOLA DI PASQUA

Sono gli anni Settanta inoltrati del secolo scorso.
Lì, oltre la baia di Pearl Harbour, oltre la Cina comunista, oltre le terre nipponiche dove quasi non splende più il Sol Levante del Trono del Crisantemo, lì oltre il mare filippino che trasforma in gorghi di sale le gigantesche onde del Pacifico, lì, su un’isola qualsiasi, nel fitto di una foresta impenetrabile oltre un piccolo villaggio filippino che da trent’anni vive nel terrore, lì c’è Hiroo Onoda che fa la guardia al nulla.
La seconda guerra mondiale è finita da trent’anni, ma lui non lo sa. Nessuno lo ha avvisato. Lui non sa di Hiroshima e Nagasaki, lui non sa che le anime dei suoi morti sono salite al cielo su una scala immensa a forma di fungo, lui non sa del trattato di pace firmato con gli americani che sancisce che l’Imperatore non è più un Dio. Hiroo Onoda da trent’anni ha soltanto un pugnale, e con quello terrorizza il povero villaggio filippino che ha la sventura di affacciarsi sulla sua foresta. Gli hanno ordinato di presidiare quella posizione, nel 1944, di non arrendersi mai – a costo della vita -, e nessuno ha mai revocato l’ordine, quindi Hiroo Honoda lo esegue; e nelle sue intenzioni continuerà davvero a farlo finché avrà vita.
E ne avrà parecchia, di vita, perché quando lo trovano quasi non sembra nemmeno invecchiato. Dovrebbe avere cinquantadue anni nel 1974, quando il mondo viene a sapere di lui, ma sembra una giovane belva furente. La carne non ha ceduto, e lo spirito è forgiato nel ferro e nel fuoco, nella ferocia e nella disposizione alla morte che sono proprie dei samurai.
Ci vorrà del bello e del buono per convincerlo a cedere le armi, a uscire da quella foresta da dove seminava il panico, a rendersi conto che la guerra era finita da un pezzo. Dovrà riuscirci il suo diretto superiore di tanti anni prima, recandogli personalmente un dispaccio dell’Imperatore in persona, che lo sollevava dagli ordini ricevuti.

C’è un giapponese a Cosenza, uno a cui hanno ordinato di non arrendersi mai, a nessun costo, e lui pedissequamente esegue, fino a mostrare il petto alle fucilate nemiche facendo da scudo al suo diretto superiore – e da qui, dal nostro blog, oggi parte la spedizione di soccorso per cercare di salvare almeno lui. Non ha gli occhi a mandorla e non è giallo, ma ha l’inflessibile tenuta nervosa di chi non abbandonerà il posto assegnatogli nemmeno sotto i colpi della mitraglia. E i colpi arrivano, da tutte le parti: sono diretti più in alto, ma il giapponese eroicamente si lancia a corpo morto per fare da scudo con le sue stesse membra.
C’è un giapponese a Cosenza, l’ultimo.
Gianluca Pasqua è un professionista serio e corretto. Preparato, pure. Non bastasse, chiunque sa perfettamente che è tifosissimo rossoblu da sempre. Abbiamo imparato a conoscerlo negli anni, tanti ormai, di trasmissioni televisive accesissime e seguitissime – nonché sui gradoni del San Vito da molto prima che si chiamasse Marulla.
Gianluca Pasqua è, oggi e da tempo, l’addetto stampa del Cosenza Calcio: il mestiere più ingrato del mondo, di questi tempi – assai più sacrificato di quello di Falcone, che pure ha trascorso un’intera stagione calcistica a respingere disperatamente i bombardamenti a cui è stata sottoposta la porta del Cosenza. Ma meglio, molto meglio stare davanti al plotone d’esecuzione degli assatanati attaccanti della serie B, lanciandosi da un palo all’altro e parando pure la metà dei rigori (che non sono stati affatto pochi) tirati contro i Lupi, piuttosto che fare da frangiflutti tra una tifoseria inferocita e una stampa sportiva avvelenata e incalzante da una parte, e l’ineffabile Fantomas che siede sullo scranno di presidente dall’altra.
Guarascio è sparito da settimane, lo sappiamo. Lo sanno pure a Chi L’Ha Visto. È stato avvistato l’ultima volta mentre discuteva in pubblica piazza col sindaco, e chissà cosa si saranno detti mai, dopo di che è scomparso dalle scene nonostante tutti richiedano a gran voce un confronto con lui, “il presidente più vincente della storia del Cosenza”.
E su chi si rovescia la valanga di strali e accuse che il mondo rossoblu vorrebbe riservare al presidente, quando questi si fa di nebbia? Sul giapponese rimasto nella jungla a presidiare le macerie. Sull’addetto stampa che sudando cerca di garantire che sì, ha ricevuto le richieste, ha visto i messaggi sul telefono, sì, ha avvisato il presidente, certo, il presidente sta prendendosi una pausa di riflessione terminata la quale, per carità, prenderà seriamente in considerazione l’ipotesi di tenere una conferenza stampa per spiegare tutto ciò che una città intera vorrebbe sentirsi spiegare. Sì, certo, tempo qualche giorno, sì, richiamo io, sì, riferirò al presidente…

Gianluca Pasqua deve essere salvato.
È un uomo distrutto, un guerriero sfinito che non può issare bandiera bianca nonostante la sconfitta rovinosa incomba. È assediato e isolato. Asserragliato dentro l’ultima ridotta – una triste bandiera rossoblu che senza vento, crivellata di colpi, non sventola ma stancamente gli fa ombra da sopra la sua trincea, a vana testimonianza che c’è chi combatte ancora -, Gianluca Pasqua incarna un eroe archetipico di cui non avevamo bisogno (lui per primo non ne aveva bisogno) e che poi fondamentalmente non ci meritiamo. Soprattutto non se lo merita Guarascio, che lo lascia allo sbaraglio alla mercé di un branco di Lupi inferociti.
Non ha armi, Gianluca Pasqua, non gli hanno dato manco quelle. Nemmeno il rudimentale coltello con cui Hiroo Onoda terrorizzò un’isola intera, lì oltre il Mare delle Filippine. Gianluca Pasqua ha solo la faccia che ci mette e il suo coraggio omerico, quando deve buttarsi nella fossa dei leoni per annunciare incredibilmente che il Cosenza andrà in ritiro il 20 luglio a San Giovanni in Fiore, in un impianto con il terreno di gioco da rifare e la tribuna inagibile.
Il Cosenza andrà in ritiro il 20 luglio a San Giovanni in Fiore”. Voi lo avreste il fegato di proclamare al mondo una simile frase, a rischio che il mondo se la prenda con voi che siete lì a portata di improperio – ambasciator magari non porterà pene, ma rischia di riceverne dai destinatari se il messaggio che reca non è gradito – anziché col presidente, che chissà dov’è?
Si alza uno e ti chiede, toh, che diavolo è il Cosenza? Tu che mi leggi lo avresti il coraggio di stare lì a parlare di ritiri e date correndo il rischio di domande del genere? Che diavolo è il Cosenza? Il Cosenza non esiste. Non si può parlare di squadra di calcio esistente, quando nella prima decade di giugno ancora ci sono sette giocatori in rosa, di cui uno di ritorno da un prestito e due che a quanto si dice avrebbero già manifestato la volontà di essere ceduti per restare in B. Che diavolo è il Cosenza? Difficile parlare anche dell’esistenza quantomeno della società, senza DG da sempre, senza DS da settimane (se non vogliamo dire da mesi), con un presidente che potrebbe insegnare le sparizioni ai migliori prestigiatori.
Che diavolo è il Cosenza? Se il Cosenza non esiste, ci vuole veramente un coraggio leonino per presentarsi al pubblico, da bravo addetto stampa, e dire una cosa tipo il Cosenza il 20 luglio va in ritiro.
Un coraggio che ha solo Gianluca Pasqua, l’ultimo giapponese.
Dobbiamo salvarlo.

Quando Hiroo Onoda depose le armi – il rudimentale coltello di cui sopra – fu riaccompagnato in Giappone, dove si preparavano a riceverlo con tutti gli onori. Gli magnificarono il destino del Paese dei Mandorli in Fiore, il suo grande balzo nel futuro, i suoi enormi progressi tecnologici. Della seconda guerra mondiale gli dissero solo che era finita – da ben trent’anni – ma non come.
Una volta aperto il portellone dell’aereo che lo aveva riportato a Tokyo, Hiroo Onoda seppe com’era finita la guerra. Vide la gente che lo aspettava – ufficiali dell’esercito, dignitari, funzionari di Stato ma anche semplici cittadini – e li vide tutti uguali: tutti con giacche e cravatte, abiti di foggia occidentale, persino qualche jeans, non un solo abito tradizionale giapponese di seta antica e cotone. Li vide in giacca e cravatta – li vide vestiti come occidentali, li vide colonizzati culturalmente dall’Occidente – e capì che la guerra era persa.
Capì in un lampo, gli bastò uno sguardo e – per la prima volta – dopo trent’anni pianse.
Noi dobbiamo salvare Gianluca Pasqua. Raggiungerlo su quell’isola perduta, in quella foresta, trarlo al riparo dai proiettili che fischiano rasente la sua testa, strapparlo dal giogo presidenziale che lo manda al massacro. Gli dobbiamo dire da subito la verità – guarda, Gianluca, non è drammatica come potrebbe sembrare. Ma devi saperlo, siamo un tantino retrocessi… ma non tanto, giusto un po’, e poi magari ci ripescano – gli dobbiamo dire di essere forte. Gli dobbiamo mostrare il mondo, e soprattutto dobbiamo proteggere lui da quel mondo che ora come ora sta per mangiarselo vivo visto che non si può mangiare vivo il fantasma del presidente.
Lo dobbiamo rincuorare. Anche i suoi occhi si inumidiranno, come quelli di Hiroo Onoda a vedere i suoi connazionali vestiti come la midclass americana. Glieli dobbiamo asciugare. Coraggio, Gianluca, Coraggio. Vedrai che ce la faremo, vedrai che ci rialzeremo.
Lo abbiamo fatto sempre, in 107 anni che siamo al mondo – 107 anni di botte che prendiamo, ma ci siamo sempre rialzati. Lo faremo ancora.
E no, l’orco cattivo non ti terrà più prigioniero per sempre a scrivere comunicati deliranti e a fare da bersaglio alla contestazione dal vivo e via whatsapp. Vedrai, lo manderemo via.
Coraggio, Gianluca, coraggio. Stiamo venendo a salvarti.

NubeDT

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