L’OCEANO ADRIATICO

Nel suo immortale saggio Critica degli Orizzonti Perduti, il grandissimo filosofo ugrofinnico Søren Gænnar Houllemand, a cui la prestigiosa Accademia del Lauro d’Oro ha conferito il Delfino di Smeraldo (il premio per il più grande filosofo otto-novecentesco del mondo) scriveva: “benché indulgere alla meraviglia nostalgica dei ricordi più felici di un passato che non tornerà possa far credere – talvolta non a torto – che si rischi di cadere in una spirale di inane inconclusiva inattività, comunque tali e tanti sono i fili intrecciati della ragnatela che unisce il passato al presente tessendo il futuro, nel nostro universo mondo interconnesso come un alveare, che pure lasciarsi cullare dalle memorie, anche se sembra non affrontarsi così il presente, potrebbe nonostante tutto essere un modo proprio per rapportarsi alla quotidianità – e a quel futuro verso cui ci si può proiettare anche viaggiando nel passato“.
Ora, è pur vero che il grandissimo filosofo ugrofinnico Søren Gænnar Houllemand me lo sono inventato io (è lo pseudonimo che ho deciso di usare per spacciare le mie intuizioni filosofiche vestendole di austera legittimità accademica), l’Accademia del Lauro d’Oro l’ho fondata io (e ne sono l’unico membro) e il premio Delfino di Smeraldo per il più grande filosofo dell’Otto-Novecento non esiste (non ho soldi per forgiare un delfino fatto tutto di smeraldo), ciò nonostante non ho mica scritto una cazzata, anzi.
E perciò per una volta guarderò al passato, in occasione di una recentissima felicissima ricorrenza – e quindi non al passato più prossimo, quello della tragicomica retrocessione -, anziché al futuro che ci aspetta. Perché spero ancora, in fondo, che quel passato possa riverberarsi nel nostro futuro.


La mia Pescara (ognuno di noi ne ha una, no?) è cominciata dall’alba del giorno prima della finale.
Pescara, già. A Pescara a giocare una gara da dentro o fuori, con supplementari e rigori in caso di parità: un film già visto, un ricordo ancora dolcissimo, un segno di buon augurio. Se il Cosenza giocasse a Pescara tutte le gare di campionato (o quantomeno tutti gli spareggi), avrebbe già un paio di scudetti nel palmares.
Sono partito con gli amici fin dal giorno prima, perché il programma era di fermarci a pernottare a Roma, dal fratello di uno di loro, per recarci all’Adriatico poche ore prima della partita.
E così abbiamo caricato la macchina grande e siamo partiti in tre – recuperando a Roma il fratello di cui sopra – e saremmo diventati in quattro sugli spalti in terra abruzzese. Mezza Italia d’asfalto ci è scivolata sotto le ruote mentre le ore di viaggio si accavallavano. Guardavamo intellettualoidi film d’essai impegnati sul lettore di DVD portatile (sostanzialmente tutto il ciclo dell’Ispettore Giraldi di Tomas Milian) e ascoltavamo le partite dei Mondiali del 2018 alla radio. Io mi ero giocato gran parte dei miei averi (due euro) sulla soffiata di un losco informatore che mi aveva garantito come sicura la vittoria dell’Argentina sull’Islanda. Molti ricorderanno quel clamoroso pareggio colto dalla cenerentola islandese contro i sudamericani, con Messi che fallì anche un rigore. La mia rovina economica di quel giorno fece sì che per lungo tempo aleggiasse su di me il nero spettro della miseria.
Cenammo a Roma, come a Roma pranzammo il giorno dopo. Della cena, del desco e di ogni altro pasto o particolare di Roma ricordo pochissimo. Tutta la memoria si concentra sulle ore dell’Adriatico, dalla partenza da Roma a tutta l’atmosfera della finale.
Capimmo di essere in zona quando, a un certo punto dell’Italia, ci lasciammo l’anonimo e indistinto paesaggio autostradale per ritrovarci all’improvviso dentro un immenso fiume rossoblù di pullman e auto – vessilli, sciarpe, bandiere, i colori più belli del mondo ci salutavano fieri da una carovana di amore e persone dentro cui eravamo confluiti, come sospinti dal destino. Già da un po’, ben lontani dalla meta ma comunque in Abruzzo, ci eravamo imbattuti in cartelli improvvisati – TIFOSI DEL COSENZA PER DI QUA—> o qualcosa del genere – e tutto quel fiume rossoblù, che di chilometro in chilometro si ingrossava fino a diventare oceano, si incanalava seguendo quelle frecce. Casa era lontana centinaia e centinaia di chilometri, ma la lingua che si sentiva risuonare in aria, da dentro le altre vetture, da dentro i pullman, nelle piazzole di sosta, nelle stazioni di servizio, era la stessa che odono i vari co’ e fra’ quando si sentono appellare sotto i cieli del nostro amatissimo Bruzio.
Un popolo intero scendeva in campo a riconquistare la sua storia, a ritessere i fili di un sogno spezzato.


Pescara. Cosa ricordo del prima? Una pineta, una struttura museale e boschiva dedicata a D’Annunzio, lontano l’urlo dell’Adriatico – il tutto fuori dallo stadio, a qualche centinaio di metri dal teatro che avrebbe cullato i nostri sogni. Un panino con dentro sa Dio cosa, un chioschetto davanti all’ingresso della nostra curva – perdonaci tutti, Tonino, Mago del Panino, ma siamo in trasferta. L’oceano rossoblù che si riversa senza fine. Altre bandiere, altre maglie, le stesse che vediamo sotto casa. Sensazioni già vissute molte altre volte, ma ogni volta il cuore batte più forte.
Sembra cambiato un po’ l’Adriatico – lo stadio – da quel giorno benedetto in cui Gigi, basta solo il nome, Gigi, attraversò come una nube di tempesta la difesa della Salernitana. L’Adriatico, il mare, invece è sempre lì, quasi sembra arrivi a noi l’odore aspro dello iodio, non è mai cambiato fino a oggi – ma oggi, proprio ora, sembra diventato oceano anch’esso, perché noi siamo il Cosenza e il Cosenza oggi vuole solo la grandezza.
Oggi è tre anni fa quasi precisi, 16 giugno 2018. Da qui in poi la Pescara di ognuno diventa la Pescara di tutti, la memoria condivisa, persino da chi non c’era e l’ha vista in TV. Tranne magari, consentitemi, qualche piccola differenza: chi l’ha vista in TV, nella gloria dell’alta definizione ma senza una vera prospettiva 3D, chi non era fisicamente lì all’Adriatico certamente sa lo stesso che il tiro di Tutino è finito all’incrocio, ma non può sapere di quanto sia finito all’incrocio. Non può sapere che davvero tra il pallone scagliato da Gennaro e l’incrocio tra la traversa e il palo ci passavano due, massimo tre centimetri.
Quanti eravamo? I biglietti venduti ufficialmente ai tifosi del Cosenza, tra la disponibilità della curva e gli stock vari, erano circa undicimila, tutti polverizzati. Ma allo stadio abbiamo scoperto di essere di più, quando al primo LUPI LUPI abbiamo visto alzare le bandiere e accompagnarci anche almeno metà delle due tribune ai nostri lati – chi viene da fuori, studenti e lavoratori al nord, non si è fatto scoraggiare dal sold out della curva e ha comprato il biglietto dei settori dedicati ai neutrali tifosi di casa (assenti). Tredicimila? Quindicimila? Quanta Cosenza c’era, a seicento e passa chilometri da casa? E forse negli anni Ottanta o Novanta saremmo stati quasi il doppio.
Uno spicchio bianconero, laggiù. Un dettaglio della nostra festa. Non c’è nulla per loro, oggi non corrono Oca e Tortuca, oggi sono solo comprimari invitati alla festa. LUPI LUPI, dodici tredici quindicimila a urlare, ebbri di gioia, e l’urlo dell’Adriatico a fare da eco. I boati ai nostri tre gol hanno squassato l’aria al punto che ho follemente creduto che davvero l’onda d’urto potesse sollevare il mare.
Bruccini, un lampo improvviso che ha trasformato la gioia tesa del tifo in un’esplosione quasi incredula. Sì, siamo venuti qui per vincere e tornare in B, ma è tutto vero, siamo davvero in vantaggio? Cioè, ci stiamo riuscendo? Davvero?
Sì, davvero. Quasi non è nulla quell’urlo rispetto a ciò che succede quando Tutino manda il pallone a sfiorare di due, tre centimetri l’incrocio – dalla parte della porta, però. Con la rete a pochi metri da noi che si gonfia, proprio sotto i nostri occhi. Abbiamo urlato, allora? Certo che sì. Deve essere così, perché ricordo che ho pensato che stessero per scoppiarmi le orecchie. E la gola, perché urlavo anche io, nel delirio.
Il solito rigore. Quasi da copione quel passaggio dalla sofferenza, dal timore di cadere dalla torre delle illusioni. Ma il Siena non c’è mai stato, né prima né dopo l’estemporaneo gol di Marotta dal dischetto.
Quando Baclet entra di prepotenza nel tabellino anche di questa partita mancano solo tre minuti alla fine e stavolta l’urlo – il mio? Quello del popolo dei Lupi? La somma di tutto? – mi fa rimbombare le tempie. Non avrò voce per giorni. Per minuti e minuti, quelli che mancano al fischio finale – recupero compreso – l’Adriatico Oceano riecheggia da lontano, divertito, il coro del Mojito. Pure i senesi lo avranno imparato a memoria, anche se dall’alto del nobile lignaggio di Piazza del Campo manco sapranno cosa sia, Piazza Fé.
E solo dalle immagini di Eleven Sports del giorno dopo scoprirò che a un certo punto, a fine partita, abbiamo pure alzato al cielo una coppa. Sacrosanta, in fondo, ci abbiamo messo nove partite a arrivare fin qui, mai nessuno c’era riuscito e quel record è ancora oggi imbattuto in serie C. Io ero lì, su quegli spalti, e giuro che della scena della coppa non mi sono minimamente accorto. Urlavo ancora, urlavo ancora gol. Urlavo ancora inarticolatamente, senza senso, urlavo per sfogare una gioia lacrimata che sembrava infinita, più urlavo e più dovevo urlare.
Ritorno a Roma, pernottamento, strada verso il sud la mattina dopo, una meravigliosa mattina di sole. Pranzo a Salerno in un localino vicino al lungomare dove mangerò – all’aperto, in una bellissima piazzetta -, coi due amici coi quali ho affrontato l’avventura, un biscotto di grano con cozze & fagioli di cui vanamente, da allora, ho tentato di riprodurre a casa la ricetta. C’era anche un astice in un acquario, ma ahilui è finito nel piatto di un commensale del tavolo accanto al nostro, lo ricordo ancora. I casi della vita, lui in pentola e io in serie B. Meno male che non sono nato astice, ricordo di aver pensato.


A cosa serve tutto questo?
Perché proprio ora, seppure con la scusa del terzo anniversario e dell’obbligo della rievocazione?
Guarascio, lo ricordo, c’era già allora da sette anni. Era presidente già all’epoca e lo sappiamo tutti. Certamente se ne ricorda anche lui. Si ricorda dell’oceano rossoblù all’Adriatico, dodici, tredici, quindicimila, si ricorda dei ventimila col SudTirol e degli altrettanti la sera dopo la finale, a festeggiare la squadra di ritorno da Pescara in un San Vito notturno vestito a festa. Se ne ricorda, ma purtroppo il ricordo non lo ha mai smosso né sembra smuoverlo ora.
Però quel ricordo esiste. Quegli eventi ci sono stati. Quel popolo, quelle moltitudini, quella festa.
Come racconterebbe – magari con aulici accenti più filosofeggianti dei miei, ma del resto lui si è visto assegnare il Delfino di Smeraldo – Søren Gænnar Houllemand, questa, o almeno anche questa, è Cosenza. E a volte rifugiarsi nel passato glorioso non è mera nostalgia per sfuggire alle miserie dell’oggi, perché chi un passato glorioso ce l’ha può scappare dalla realtà nascondendosi nello struggente ricordo di esso, ma può pure guardare a quel passato per costruire il futuro.
Forse un futuro costruito da Guarascio per il Cosenza non c’è, né glorioso né di altro tipo – in questo non indulgo all’ottimismo, e sfido sempre il presidente a smentirmi coi fatti e mi farebbe felice come quella sera di tre anni fa. Ma il Cosenza è il Cosenza dal 1914 e Cosenza è Cosenza dall’ottavo secolo a.C. o anche da prima – anche se il suo nome, Consentia, è quello che le dava l’antico nemico, l’altra città sorgente su Sette Colli, non quello con cui lo chiamavano i primigeni abitanti né quello con cui l’avranno poi chiamata i Bruzi conquistatori nostri antenati (se ancora abbiamo qualche goccia di sangue bruzio nel sangue romano che ci scorre nelle vene). Non è il suo nome vero, Cosenza – era Kos o Cossa, come sostengono oggi le tesi storico archeologiche più gettonate? – ma è il nome con cui abbiamo imparato ad amarla fin dal nostro primo vagito.
Un amore che è esploso mille e mille volte dal 1914 a oggi, eppure non abbiamo mai sollevato al cielo una Coppa dei Campioni, un amore che è esploso anche quella sera di tre anni fa a Pescara. Un amore che ancora arde sotto cumuli di brace e macerie – e sempre arderà – pronto a ravvivarsi alla prima benevola fiamma di speranza.
Oggi in quel passato, Guarascio o non Guarascio, io voglio vedere il futuro.
Buon anniversario, Cosenza.

Nubedt

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