CAPITAN FUTURO

Col suo quattordicesimo gol stagionale, a cinque giornate dalla fine Gennaro Tutino ha già migliorato la sua massima prestazione di sempre in serie B (i tredici gol siglati con la maglia della Salernitana), ma questo non basta nemmeno minimamente a spiegare e rappresentare la totalizzante importanza che il numero 9 riveste non solo per lo score realizzativo del Cosenza, non solo per l’intera manovra offensiva, ma soprattutto per la squadra in sé. Tutino fa i gol, Tutino fa fare i gol, Tutino crea azioni pericolose, ma soprattutto Tutino trascina con sé tutto il Cosenza, con la squadra che a costo di enorme fatica si risolleva dalle secche quando laggiù, in lontananza, può scorgere la propria luce guida incarnata dal bomber.
Con Tutino in campo, anche il peggior Cosenza potrebbe salvare la pelle.
Credo che queste considerazioni siano più o meno banali, perché chiunque si rende conto (a prescindere dai numeri, che pure sono estremamente significativi) che il Cosenza può sperare di farcela (in campionato e nella singola partita) finché può contare su Tutino. Banali e scontate ma vanno fatte, perché, con aprile ormai inoltrato, nonostante ci sia una salvezza ancora da conquistare (colpa nostra: sarebbe bastato non lasciare per strada 4-5 punti in modo sanguinoso e oggi saremmo già in porto), bisogna fin da subito gettare le basi per la prossima stagione. E le basi della prossima stagione si gettano rispondendo innanzitutto a un interrogativo a monte, già fatto su questo blog (da NubeDT) ma ora più che mai attuale, perché dalla risposta dipende il modo di agire nel prossimo futuro.
Cosa vuole fare la società da grande?
Perché da questo dipende anche il futuro di Tutino, di proprietà del Parma.
Per capirci: gli altri del blog hanno qualche pudore a parlare pubblicamente del Catanzaro, perché prendere ad esempio le aquile (o meglio, la loro società) non è la stessa cosa, per ovvi motivi di rivalità, che citare il modello Cittadella tanto in voga negli anni scorsi (e che Guarascio diceva di voler perseguire, ma solo a parole: fin troppe volte sono state rimarcate le differenze tra la sua condotta e il modello dei veneti, non credo sia necessario ritornarci). È ovvio e naturale che bisogna parlare a un cosentino qualsiasi di un eventuale (con decenza parlando) modello Catanzaro (San Francesco di Paola, perdonami) con molte più accortezze e molta più prudenza rispetto a quando si prendono ad esempio i granata padovani. Il cosentino, al sentire certe parole, può infilarti per istinto, anche senza volerlo, due dita negli occhi: si sa che all’istinto non si comanda, perché certe parole scatenano reazioni inconsce.
Tuttavia va fatto. E poiché io vivo parecchio lontano da Cosenza, tra i boschi e le metropoli della pianura padana, in quello struggente Nord che ormai chi legge i miei scritti ha imparato a conoscere, mi assumo io il compito di fare quello che il pudore impedisce agli altri di fare. Lo ripeto ancora, va fatto.


Sgombriamo il campo dagli equivoci fin da adesso: qui si parla per esempi, per periodi a lungo termine, per massimi sistemi, eccetera. Nessuno nega che il bel campionato del Catanzaro possa anche essere frutto di coincidenze e/o congiunture favorevoli, ma le coincidenze non spiegano tutto e le congiunture favorevoli, prima ancora di saperle sfruttare, bisogna essere bravi a procurarsele. Il singolo campionato del Catanzaro, come di qualunque altra squadra, può pure essere in parte frutto di accidente (si infortuna un giocatore fondamentale oppure vive la sua stagione migliore in carriera: sliding doors che incidono pesantemente sulla classifica), e questo vale per tutti, ma se si prende il Catanzaro di questi anni non si può negare di rilevare marcatamente una spiccata continuità.
Continuità tecnica, continuità di schemi, continuità di risultati.
Parliamo di una squadra che ha fallito, prima di vincere il campionato, diversi appuntamenti di cui due consecutivi) coi playoff di serie C: falliti, sì, ma il Catanzaro era lì. E la differenza tra uscire ai playoff e vincere il campionato, a proposito di sliding doors, magari in una di queste circostanze l’ha fatta il singolo episodio: il celebre rigore alla Panenka di Giannone a Castellamare a un soffio dal fischio finale, che rispetto a Panenka però non ha gonfiato la rete. Se quel rigore fosse stato segnato le aquile avrebbero sbancato il Menti, sconfiggendo l’allora capolista a domicilio, avrebbero avvicinato pericolosamente le vespe e allora chissà
Ma l’anno dopo il Catanzaro era ancora lì. Rinforzando la squadra, continuando a programmare e investire. La squadra che oggi sta conquistando i playoff è più o meno quella che ha stravinto la C l’anno scorso: un girone C facilissimo su misura per loro, siamo d’accordo, ma come detto le congiunture bisogna anche sapersele procurare e poi saperle sfruttare. Per dirne una, avevano spopolato l’anno prima con Vandeputte in prestito dal Padova: per l’anno della vittoria del campionato Noto ha alzato la cornetta, ha chiesto al Padova quanto costasse il cartellino di un giocatore che già benissimo aveva fatto sui tre colli (e non dimentichiamo che anche i veneti erano in C e coltivavano ambizioni tali che l’olandese avrebbe fatto comodo pure a loro), ha sentito la cifra e firmato un assegno.
Per non parlare di come, ancora in serie C, fu riscattato senza problemi dal Frosinone il cartellino di un attaccante di categoria superiore come Iemmello, che infatti non a caso ha riportato i giallorossi in cadetteria a suon di gol. Però riscriviamolo bene per scolpire il concetto: il Catanzaro, in serie C, è andato dal Frosinone, allora in A, che gli aveva prestato Iemmello, e ha riscattato il cartellino.
Cominciate a capire, adesso, come si ritorna a Tutino?
Al Tutino del nostro incipit?
Il Cosenza di oggi deve salvarsi e siamo tutti consapevoli di ciò, ma oggi già si deve costruire il futuro. Che futuro si vuole, allora? L’esempio a cento chilometri di distanza ci spiega quanto bene possano fare la continuità e la programmazione. Lo zoccolo durissimo di elementi fondamentali, simbolo anche caratteriale della squadra, quelli che nelle brutte mantengono la barra del timone ben dritta (non i Maradona: i Luciano De Paola, ci capiamo?) e tengono saldo lo spogliatoio. Quelli che devono restare sempre, fondamentali in campo e fuori.
E poi uno zoccolo duro di giocatori che devono restare non per forza sempre ma anni sì, giocatori fondamentali almeno in campo: in questi anni ce ne siamo visti passare davanti e sfilare via parecchi, che se solo fossimo riusciti a trattenere di più (o meglio, se ci fosse stata la vera volontà di trattenerli) avremmo vissuto annate migliori. Giocatori che erano qui quasi sempre in prestito e di cui non è passato neanche per l’anticamera di trattare per il cartellino: un nome su tutti, Giuseppe Caso. Giocatori che ci restano dentro in forma di rimpianti.
E infine, a completare la rosa, vanno benissimo i prestiti di elementi giovani che possano avere un grande futuro: ma un Nasti o un Crespi dovrebbero venire qui per imparare, non per vedersi scaraventare sulle spalle il peso di salvatori della patria. Ragazzi di nemmeno 20 anni non meritano di essere caricati di responsabilità simili, a rischio persino di bruciarsi una carriera.


Tutino, quindi. Lui per fare un esempio, certo, ma lui anche e soprattutto perché è l’esempio. Tutino ha dato il massimo per noi, siamo a oggi fuori dalla zona playout grazie specialmente a lui, e la sua storia ha anche dimostrato che a Cosenza rende molto più che altrove: né Parma né Palermo ne serbavano ricordi memorabili.
Tutino deve restare per gli anni a venire: il cartellino di Tutino va rilevato dal Parma. Ci sono state in questi anni entrate a sufficienza (purtroppo ogni volta dirottate verso voci di bilancio extracalcistiche…) perché si possa finalmente pretendere una programmazione che sia anche foriera di veri investimenti, di acquisti di cartellini di giocatori importanti. La tifoseria del Cosenza, che si è già vista passare davanti e scippare dal cuore e dai sogni i vari Caso, Casasola, Tutino stesso e compagnia, ora merita che un amore sconfinato venga finalmente ripagato da una società degnamente convinta di cosa fare da grande.
Investire.
Programmare.
Costruire.
Dotarsi di un organico di squadra che conosca sulla propria pelle il peso della maglia che indossa, del nome e dei colori che porta, e di strutture (soprattutto centri sportivi di allenamento) che portino il club finalmente al livello delle avversarie di categoria (a proposito: sempre a soli cento chilometri di distanza si stanno dotando di un impianto all’avanguardia in quel di Giovinazzo*).
Continuità (nel bene, non nell’arronzo) e visione anche a medio e lungo termine.
E in fondo, sostanzialmente, ritornare dopo decenni (perché, pur coi limiti dell’epoca poi resi disastrosi dalla tragica era pagliusiana, un passato in questi termini c’è stato) ad avere una precisa identità. Significa, ma non solo, dare un senso concreto (e positivo) al concetto di essere il Cosenza che oggi, e tocca dire pure questo, semplicemente non è incarnato, al netto di lasciare questa enorme responsabilità al singolo: e meno male per tutti noi che quel singolo, con la maglia numero 9, si chiama Gennaro Tutino. Non c’è altrimenti il Cosenza, ma sempre e solo un gruppo eterogeneo di calciatori di passaggio (finalmente alcuni anche forti e all’altezza della categoria) che mettono per un anno quella maglia che per loro, a livello affettivo e di importanza, vale quanto quella della Pro Sesto, e l’estate dopo vanno a ballare da un’altra parte, magari in serie A se sono stati abbastanza bravi qui. C’è questo e basta, non c’è “il Cosenza”, se non per Gennaro Tutino.
Quel Gennaro Tutino che, acquisito il suo cartellino dal Parma, deve rappresentare il primo tassello per il futuro, attorno al quale costruire una squadra di pari valore e destinata a durare nel tempo, senza sbriciolarsi a ogni estate. Se si può fare non nel ricchissimo nord bensì a cento chilometri a sud di Cosenza, si può fare anche a Cosenza.
La tifoseria lo vuole e lo merita.
La società è pronta a fare finalmente questo passo?
Una risposta sarebbe gradita fin da ora.

Mario Kempes

* Avete ragione, è Giovino e non Giovinazzo. Ma Mario Kempes vive da tempo fuori e non è comunque mai stato tanto avvezzo alla zona del catanzarese. In compenso, mentre Noto mette in piedi tutto questo, Guarascio tra Giovino e Giovinazzo ci mette soltanto l’-azzo di differenza

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